Il bluff globale, quarto volume di Limes del 2023, muove dall’idea che la "globalizzazione" non sia fenomeno solo commerciale. Pertanto, la sua trasformazione – dall’esito ancora aperto – non è un fatto solo economico. La (seconda) globalizzazione è infatti figlia di tre eventi squisitamente storico-geopolitici: l’esito delle due guerre mondiali, la scelta statunitense di aprire alla Cina nel 1972 in chiave antisovietica e lo sbocco della guerra fredda. Il primo evento mette fine al primato europeo, consentendo la definitiva ascesa degli Stati Uniti a grande potenza. Il secondo pone le premesse del binomio Usa-Cina su cui si è retta, finora, quella dinamica aggregante che siamo soliti chiamare globalizzazione. Il terzo eleva a canone il modello materiale e culturale statunitense (Washington Consensus), facendone il paradigma del rise of the rest che Washington tenta d’inquadrare in un ordine mondiale incentrato sull’America. A sancire la fine della luna di miele con gli Stati Uniti è la disillusione verso il canone, appannato da errori strategici (guerra al terrorismo) e mali sistemici (recessione del 2008, violenza sociopolitica e altre manifestazioni della "tempesta americana"). Ma anche la sopraggiunta divergenza tra convenienze economiche e traiettorie geopolitiche, soprattutto di Usa e Cina. Da cui l’alterazione del rapporto tra costi (sostenuti) e benefici (percepiti) di un primato che gli Stati Uniti sembrano sempre meno capaci e desiderosi di sostenere, ma cui non vogliono (ancora?) rinunciare. L’interdipendenza, essenza della modernità post-guerra fredda, si volge così da viatico di cooperazione a fonte di tensione tra il Numero Uno e i suoi sfidanti, specie dov’è più difficile da scalfire. Con inevitabili ripercussioni sugli alleati – europei e non – di Washington, orfani di un ordine americanocentrico cogente ma, tutto sommato, comodo e rassicurante.