Il "De vulgari eloquentia", che risale all’inizio del sec. XIV, è il primo libro scritto sulla nostra lingua, per analizzarne e promuoverne l’uso poetico, quando ancora non esistevano dizionari e grammatiche dell’italiano, e la nostra letteratura era agli inizi. Dante, appena uscito dall’esperienza dello Stil novo, cominciò (lasciandolo tuttavia incompiuto) questo mirabile trattato, nel quale la tematica propriamente linguistica si collega in maniera affascinante all’universo delle conoscenze medievali, alla religione, alla storia dei popoli, alla filosofia, alla teologia, alla poesia, ai movimenti letterari e anche all’assetto politico dell’Italia. Il linguaggio, dunque, viene collocato al centro di una rete di rapporti con tutte le forme della cultura e della vita sociale. Dante, glottologo ante litteram, mostra inoltre di avere sensazionali intuizioni relative ai principi del mutamento delle lingue nello spazio e nel tempo, e, con formidabile spirito di osservazione, delinea un rapido ma efficace quadro della varietà linguistica nella penisola italiana. Questo libro dantesco fonda, attraverso la lingua, la tradizione letteraria del nostro paese. I curatori hanno affiancato al testo latino una traduzione moderna e scorrevole, corredata da un breve commento e preceduta da due saggi introduttivi. Il primo di questi saggi è dedicato alle alterne fortune del "De vulgari eloquentia" nella cultura italiana: quest’opera, infatti, dal Rinascimento in poi, ha suscitato imprevedibili polemiche; il secondo saggio descrive i caratteri del latino medievale usato da Dante.